La collezione Dolce&Gabbana Primavera Estate 2021 un trionfo di patchwork

Remake di remake, reboot, riedizioni, ripescaggi e recuperi. Non sappiamo ancora come chiameranno questo secolo una volta finito, ma avrei una proposta sin da ora: il secolo dell'archivio. Non c'è galleria, museo, casa editrice, cinematografica o di moda che non riproponga pezzi di passato, ripresentati identici a prima (la moda recente delle mostre-calco del passato, come quelle della Fondazione Prada a Venezia e Milano) o attualizzati in qualche modo.

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Monica Feudi/Dolce&Gabbana

Nessuna sorpresa e nessuno scandalo, il remake del già visto non è una prova della mancanza di creatività, c'è un tot prestabilito di storie al mondo, tutto il resto è variazione. Ma il divertimento sta proprio in quello, la variazione. Nel mondo della moda, dove si fanno molti meno scrupoli (o si danno meno arie) che nella letteratura o nell'arte, si costruisce tutto sul ripescaggio e il ritocco, lieve o pesante. Quanti tipi di abbigliamento possono esistere al mondo, considerato che l'oggetto da vestire è lo stesso da secoli?

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Monica Feudi/Dolce&Gabbana

E così, testimone proprio di quella moda che sa citare sé stessa e declina al futuro il passato, Dolce&Gabbana ha riguardato nel suo archivio ed è tornato alla Milano Fashion Week della Primavera/Estate 2021 con ispirazioni dalla Primavera/Estate 1993. Il tema era il patchwork, e lo è anche adesso. Patchwork di Sicilia, lo ha chiamato oggi, che volendo è un po' il riassunto di tutta l'estetica del duo di stilisti. Ecco a cosa serve nutrirsi sempre di pezzi di sé: a trasmettere coerenza e riconoscibilità, che non è soltanto un bisogno estetico, ma anche commerciale.

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Monica Feudi/Dolce&Gabbana

Il patchwork siciliano è letterale, nel senso che in passerella tutte le modelle, salvo qualcuna, indossano capi nati da un collage spesso audace e ricco di contrasti, che compone qualunque capo. I jeans a campana, i completi con giacca sartoriale e pantaloni a sigaretta, gli abiti stretti in vita con gonna ampia e corpetto stretto e gli abiti lunghi e fluenti. Insomma, Dolce&Gabbana come lo conosciamo, elevato a potenza.

Il patchwork è naturalmente anche metaforico, e richiama quel mix di culture che la Sicilia e tutta l'Italia sono sempre stati, con tanti saluti ai sovranisti che non conoscono la storia (ancora, l'archivio) e pensano che il sapere venga da un post non verificato letto su Facebook. Quelle stoffe messe tutte insieme hanno ciascuna un'origine diversa, che ormai si è persa in secoli di scambi e riappropriazioni. Il discorso sulla purezza delle origini non ha mai senso, né quando a farlo sono i sovranisti, né quando sono gli indignati dell'appropriazione culturale. Ma la cultura non era un dialogo invece che un assolo?

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Monica Feudi/Dolce&Gabbana

Tornando alla sfilata, l'effetto d'insieme è ovviamente caleidoscopico, eppure l'occhio non si perde troppo tra damascati, broccati, pois, animalier, floreale, righe, optical, metallo, oro, proprio perché Dolce&Gabbana ha reso tutto familiare nel tempo. Vedere ma soprattutto rivedere, questo suggerisce l'archivio come forma di conoscenza. E poi fare ancora un passo: remixare, trovare un nuovo senso e una nuova forma all'esistente e soprattutto al già esistito.

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Monica Feudi/Dolce&Gabbana

Quella di Dolce&Gabbana è una collezione colorata e allegra, come si può sentire subito sulla superficie dell'occhio, eppure sa introdurre quel carattere di revenant della moda, il suo essere un fantasma del passato che si fa presente. A ogni stagione, soprattutto nel secolo dell'archivio.

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